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Non vado mai bene!

Quante volte lo abbiamo ripetuto, nella fine di una relazione personale o professionale, o, proprio perché non siamo stati noi la scelta, del candidato da assumere o come compagno di vita?


E allora che fare? Cerchiamo di cambiare la nostra natura, così com’è non trova il consenso altrui, il proprio posto del mondo. Iniziamo a correggerci con lo scalpello del giudizio, con il pennello dell’intolleranza verso la nostra stessa immagine, costruiamo un altro personaggio più possibile omologato all’esterno, un esterno migliore di noi.


Quanta fatica! Eppure ancora non basta. Nonostante gli sforzi non ho raggiunto nulla di ciò che mi ero prefissato. Com’è possibile? Più combattiamo ciò che non ci piace di noi, più stiamo attaccando questa etichetta alla nostra pelle, alla nostra mente. Gli stiamo dando potere quotidiano di invadere i nostri pensieri, invalidare le nostre azioni. Quando abbandoniamo l’idea di voler cambiare, allora, il nostro personale seme interiore inizia a mettere radici, a trovare luce e nutrimento per sbocciare in un fiore, un fiore unico, che non è uguale a nessun altro, solo a sé stesso.


Quella perfezione che vogliamo raggiungere a tutti i costi, gli obiettivi che ci siamo dati, fondamentali per noi, e sempre più irraggiungibili, non hanno nulla a che vedere con il nostro fiore. Spesso ci candidiamo per posizioni professionali che non sono in linea con il nostro reale sentire, attitudini e capacità. Inviamo sempre lo stesso cv, non adattiamo, con cura, verso la posizione scelta, uno storytelling che ci restituisca valore. Così, continuiamo a inceppare in continui “no”. Essi non giungono a noi per punirci o per dirci che siamo sbagliati. Se lo stesso atteggiamento, se le stesse azioni, non hanno prodotto il nostro fiore è perché ci stiamo ostinando a fiorire dove non vi è il nostro personale nutrimento. Ciò che arriva a noi è perché è necessario per la nostra evoluzione. Al contrario, ciò che non accade, è perché non ha nulla da insegnarci. Per molti cadere nella trappola dell’inadeguatezza può avere radici antiche. Viene in mente la teoria dell’attaccamento dello psicologo John Bowlby nei primi anni di vita del bambino. Vi è ad esempio lo Stile di attaccamento Insicuro Evitante, che è caratterizzato dalla convinzione del bambino che, alla richiesta d’aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della figura di attaccamento, ma addirittura verrà rifiutato. In età adulta, attraverso quello che lo stesso Bowlby definisce modelli operativi interni, ossia le rappresentazioni mentali di queste modalità relazionali risalenti all’infanzia, l’adulto ravvisa che i suoi bisogni non possono essere accolti e compresi da nessuno e che a te tocca cavartela da solo, proprio come accadeva con i genitori da bambino, un bambino non visto e non accettato.


Ma se noi provassimo a sganciarci da tale modello, non come una sentenza definitiva, e fare spazio a cosa c’è adesso, nel qui e ora dentro di me, che vale, e che aspetta solo di essere riconosciuto da me stesso e non dall’esterno? Pensiamo che dobbiamo costantemente lavorare su di noi per correggerci, invece dobbiamo semplicemente vivere, osservando cosa davvero ci interessa senza il bisogno di commentarlo o giudicarlo.

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